La fine del diritto di copia (“copyright”)

Per critiche, osservazioni, commenti, suggerimenti scrivetemi.

Qui si potrebbe scrivere un’enciclopedia. Si dovrebbe: è una questione con 5 secoli di storia, anche se la rivoluzione è tutta negli ultimi decenni. Ci sono in ballo montagne di soldi, ma soprattutto il futuro della scienza e della conoscenza. Quest’introduzione m’ha già annoiato, quindi vado al sodo e poi espando.
Il “copyright” oggi è giuridicamente osceno e tecnologicamente superato, inutile. Andrebbe abolito e/o comunque completamente rivoluzionato. In italiano si usa “copyright”, che letteralmente significherebbe solo “diritto di copia”, come sinonimo di “diritti d’autore”, ma i diritti d’autore sono tanti. Anche nel mondo anglofono si fa così, ma io qui parlo strettamente di “diritto di copia”, il diritto a riprodurre un’opera dell’intelletto. E solo di opere perfettamente riproducibili in modo automatico, come libri elettronici (“ebook”), immagini/audio/video digitali, software, programmi per computer, “app” etc.
Il copyright è nato con la stampa, garantiva agli stampatori/editori un monopolio TEMPORANEO sul diritto a riprodurre un’opera, affinché per essi avesse economicamente senso stipulare un contratto IN ESCLUSIVA con l’autore, altrimenti (ciò che accadde inizialmente) prodotte le prime copie, uno stampatore/editore concorrente avrebbe iniziato a copiare l’opera, senza il peso di dover retribuire l’autore.
Lo ripeto perché è importante: il copyright è stato inventato per gli stampatori/editori. Certo, ha anche stimolato la produzione, rendendo la composizione di opere redditizia per gli autori, ma gli uomini hanno sempre prodotto arte, indipendentemente dall’esistenza del copyright e dalla redditività, a partire dalle antichissime pitture rupestri.
Il copyright ora (in generale) scade 70+ anni dopo la morte dell’autore. Questa situazione è oscena: il principio originale secondo cui era utile per la società privarsi temporaneamente della possibilità di riprodurre un’opera, affinché un “riproduttore professionale” fosse economicamente sostenibile, è stato completamente sconvolto. Ora invece che gli originali 30 anni dalla pubblicazione dell’opera, più che sufficienti per consentire ad autore e riproduttore di sfruttare economicamente l’opera, il copyright scade dopo almeno 3 generazioni se non 5 dalla pubblicazione. Questo serve solamente a garantire un enorme flusso di soldi ai mega-riproduttori. Particolarmente fastidiosa per me è l’evoluzione tramite cui siamo giunti all’attuale situazione, con l’arcipotente Disney che già 2 volte, quando stava per scadere il copyright sul primo film con Topolino, ha ottenuto dai legislatori l’estensione dei termini. Comunque l’attuale legislazione sta al principio originale come l’ISIS sta all’islam. Questa giuridica però non è secondo me la questione più importante.
La questione veramente affascinante è quella tecnologica: il copyright è stato inventato e aveva senso quando riprodurre un’opera significava spendere soldi per realizzare un prodotto, un oggetto. Questo è stato vero fino all’avvento dei registratori di audiocassette e videocassette economici e delle fotocopiatrici. Da allora, riprodurre un’opera è molto facile e poco costoso, quindi è assurdo concedere il monopolio della copia a qualcuno. Sarebbe come concedere il monopolio per l’estrazione dell’acqua dal mare, o il monopolio sulla respirazione dell’aria. È assurdo e impraticabile. Per non parlare poi degli odierni stratosferici livelli di acrobazie logiche, pari solo agli slogan “La guerra è pace”, “L’ignoranza è conoscenza” e simili di 1984, per tentare di giustificare il copyright nell’era dei computer tascabili (“Pokécom”, da pocket computer) costantemente connessi ad internet, come la necessità di introdurre artificialmente un attrito nella distribuzione delle opere affinché non si svalutino. Ora è possibile, con costo trascurabile, avere qualsiasi libro, audio, video, ma siamo talmente assuefatti al copyright da non riconoscere che è anacronistico, quanto certe leggi statunitensi che obbligano gli alberghi ad avere sputacchiere nei corridoi. Infatti i mega-riproduttori stanno cambiando modello, passando dal “guadagnare vendendo copie di un’opera” al “guadagnare vendendo il diritto ad accedere ai contenuti”, cioè i contratti con Spotify, YouTube e l’iTunes store, o “guadagnare vendendo esperienze” colle esibizioni dal vivo. Alcuni amici mi hanno detto che “andare al cinema” diventerà come oggi è “andare a teatro”, ma non sono d’accordo: non c’è alternativa al teatro per godere di una rappresentazione teatrale, ma quali sarebbero gli aspetti di una visita al cinema non riproducibili altrove? forse la vicinanza con estranei e le loro maledette chiacchiere ad alta voce…
La tecnologia ha spazzato via i presupposti per il copyright, ma le leggi non solo restano in vigore, addirittura restano nella forma oscena nella quale sono state plasmate dalla Disney. Vi invito ad abbracciare con slancio il mondo post-copyright E A PRETENDERE LEGGI SENSATE in questa nuova situazione, anziché lo scempio formalmente in vigore.
Il futuro di scienza e conoscenza è legato a questa faccenda perché il sistema di pubblicazione e diffusione degli articoli scientifici è assurdo, con la stragrande maggioranza di testate in mano pochissimi mega-riproduttori (Elsevier in primis). Le università firmano contratti milionari per l’accesso annuale alle riviste e accordi di non divulgazione per cui non possono rivelare i termini dei contratti. L’ipocrisia è totale, considerando la gratuità con cui la maggior parte dei revisori controlla gli articoli proposti alle pubblicazioni…
Non mi sovviene ora una conclusione, ma il pezzo è già lungo, quindi stop.